Dopo il difficile e coraggioso Urla del silenzio, Roland Joffé realizza un film più 'piano', ma egualmente intessuto di storia individuale e Storia tout court, uomini e passato, scomode verità con (perlomeno questa volta) un pizzico di astuzia melodrammatica: tutti elementi capaci di afferrare per la gola lo spettatore e tenerlo avvinghiato alla storia. Se poi al centro di essa si piazza un virtuoso come Robert De Niro, naturale candidato per una parte vulcanica come quella in questione, allora il successo è garantito. 1767, America del Sud: De Niro è lo spietato mercenario e mercante di schiavi Rodrigo Mendoza, cuore di ghiaccio che, per questioni di possesso, più che di amore per una donna, si scontra con il fratello, uccidendolo. Imprevedibilmente, il senso di colpa comincia a scongelare, e allo stesso tempo torturare, l?anima del guerriero: l'incontro con padre Gabriel (Jeremy Irons), un frate missionario, cambierà la sua vita. L'occasione catartica la offre proprio il progetto di quest'uomo pacifico, deciso a fondare una missione tra gli indigeni: Cristo è la risposta, e sembra esserlo anche per Mendoza che, convertitosi, intende farsi frate. L'uomo veste il saio, ma il destino (l'abbandono al loro destino delle missioni gesuitiche da parte della Chiesa, per motivi di convenienza politica: una delle pagine più oscure della sua storia) lo costringerà a tramutarsi nuovamente in guerriero. Questa volta per nobili motivi. Il mercenario si fa eroe, piegandosi gioco forza all'uso della violenza. Una storia commovente, che forse di questi tempi può farci riflettere sulle opposte visioni a proposito dell'uso della forza: come difesa, come sembra dimostrare Rodrigo, talvolta è la scelta ineludibile, e la 'pace senza se e senza ma?'' sembra una bella favola smentita dalle dure leggi del vivere terreno. Il sacrificio supremo non violento però salva se stessi, è la tesi di Gabriel.